Candyman

     Black Horrors Matter

Candyman – Terrore dietro lo specchio

di Bernard Rose

(Candyman)
Usa, 1992, 92′
Sceneggiatura: Bernard Rose, basata sul racconto Il proibito, di Clive Barker (pubblicato nel ciclo Libri di sangue)
Fotografia: Anthony B. Richmond
Montaggio: Dan Rae
Musica: Philip Glass
Scenografia: Jane Ann Stewart
Costumi: Leonard Pollack
Interpreti: Virginia Madsen (Helen Lyle), Tony Todd (Candyman), Xander Berkeley (Trevor), Kasi Lemmons (Bernadette Walsh), Vanessa Williams (Anne-Marie McCoy)
Produzione: Steve Golin, Sigurjón Sighvatsson, Alan Poul per Propaganda Films/PolyGram Filmed Entertainment
Distribuzione: Warner Bros Italia

Chicago. Helen Lyle, studentessa universitaria, nel preparare la sua tesi sulle leggende urbane, si imbatte nella storia di Candyman, un uomo di colore linciato per aver osato amare una donna bianca e rinato come spirito di vendetta, che può essere evocato pronunciandone il nome per 5 volte davanti a uno specchio. Armato di un uncino impiantato sul moncone della mano destra, Candyman sarebbe il responsabile dell’omicidio di una donna nel complesso urbano di Cabrini-Green. Convinta che la leggenda nasconda soltanto un alibi per la criminalità che affligge il quartiere, Helen decide di indagare la verità, ma finirà così per il precipitare nell’incubo di Candyman, che non ammette sia messa in discussione la sua verità.

Note di regia:
Mi piaceva l’idea di fondo, che ci sia un mostro che fa affidamento sulla paura e sul fatto che la gente crede in lui. E che se dovessero smettere di temerlo, lui cesserebbe di esistere.
Andare a Chicago fu un po’ casuale. Ci sono andato per esplorare, per dare un’occhiata in giro. E le cose che ho visto e sperimentato lì sono state davvero scioccanti. Ovviamente, molti aspetti del film provengono dal luogo reale e da quello che è successo lì. E hanno aggiunto un altro aspetto alla storia, un elemento tutto nuovo [rispetto al racconto originale], quello razziale, che penso lo abbia reso un film molto più grande.
Bisogna anche ricordare che la storia è raccontata dal punto di vista del personaggio di Virginia Madsen, una donna bianca che si reca nel quartiere nero. È un’inversione del classico racconto del “salvatore bianco”. Invece, lei va lì e peggiora le cose. E penso che questo sia il punto del film.
(Bernard Rose, da NME)

Bernard Rose
Nato a Londra nel 1960, si avvicina al cinema da adolescente, girando piccoli film domestici in Super 8, che vengono poi trasmessi dalla BBC in seguito alla vittoria di una competizione per giovani filmmaker in erba. Nel 1982 si laurea alla National Film and Television School e inizia a dirigere videoclip per Mtv, tra cui quello celeberrimo (e censurato) di Relax dei Frankie Goes to Hollywood. Dopo alcuni film televisivi, debutta finalmente al cinema nel 1988 con Paperhouse, che ottiene un ottimo riscontro in festival come il BIFFF (Bruxelles International Fantastic Film Festival) e il Fantasporto. Nel 1992 è l’anno del grande successo di Candyman, cui seguono vari progetti, in una carriera eclettica e che spazia tra i generi e i paesi. Il suo ultimo film, Samurai Marathon, del 2019 è un’avventura a sfondo storico di produzione anglo-giapponese e conferma la natura varia e cosmopolita del suo cinema.

La critica:
Il film è una storia d’amore di ceto diseguale, quindi da una parte c’è Candyman, nero, dall’altra Helen. Ricercatrice universitaria, appassionata di miti e leggende metropolitane. Bianca. Ceto e colore diseguali. Helen cerca storie strane come cercasse droga (allucinazioni, visioni allucinate) proprio dove, per luogo comune ma veritiero, la droga si spaccia, e cioè Cabrini-Green. Lo stargate per il ghetto, lo star-ghetto, è lo specchio di casa, una casa da notabile, posta dall’altra parte del limite di quartiere. Uno specchio come porta e come confine, come limite e come dimensione alternativa. Helen lo varca nel momento in cui invoca Candyman. È come se fuggisse da un rapporto sentimentale di insoddisfacente sudditanza con un altro professore universitario. A Cabrini-Green Helen cerca, cosa? L’amore e attraverso esso la maternità, come lei stessa dichiara. Questa urgenza c’era già nel racconto, ma nel film si fa più manifesta. Helen è un’aliena, un’estranea armata di macchina fotografica in una comunità ostile: viene accolta quasi per incidente da una ragazza madre, ed è a lei che confida i suoi sogni da puerpera, ricevendone in cambio i racconti su Candyman, effigiato sui muri nella stessa guisa delle pagine di Barker. Helen invoca ritualmente Candyman, scandendone il nome per cinque canoniche volte. Lo invoca, quindi lo brama, nascondendo il desiderio sotto il simulacro di uno scetticismo classista.
(Dikotomiko Cineblog, da “Black Mirrors. Il culto di Candyman”, in Nocturno dossier n. 226, ottobre 2021)